Il 14 ottobre 2018 papa Francesco proclamava la santità del pontefice bresciano Paolo VI e nel febbraio dell’anno successivo lo stesso papa stabiliva che la memoria di san Paolo VI ricorresse il 29 maggio nel Calendario della Chiesa di Rito Romano.
In verità la regola generale è quella di festeggiare ogni Santo il giorno della sua morte che per la Chiesa coincide con il dies natalis, il giorno della nascita al cielo. Per San Paolo VI anziché quella del 6 agosto, festa della Trasfigurazione e giorno della sua morte a Castel Gandolfo nel 1978, è stata scelta la data del 29 maggio, giorno della sua ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1920 nella Cattedrale di Brescia, a cui fece seguito il giorno dopo, 30 maggio, la sua prima messa al Santuario della Madonna delle Grazie, molto caro al popolo bresciano e frequentato sin da giovane da Giovanni Battista Montini e dalla sua famiglia.
Il centenario dell’ordinazione presbiterale di san Paolo VI che ricorre quest’anno il 29 maggio non è passata inosservata se già quotidiani, riviste e case editrici hanno ricordato l’avvenimento con numerosi articoli e nuove pubblicazioni.
Mi unisco anch’io, con il racconto di due semplici episodi che fanno parte della mia esperienza personale, al ricordo del grande Pontefice bresciano che ho avuto modo di incontrare in vita solo in una occasione, ma che ho imparato a conoscere collaborando con l’Istituto “Paolo VI”.
Ma andiamo con ordine. Il primo episodio risale a molti anni fa. Era il 17 ottobre 1971 e giovane ginnasiale legato ai Francescani conventuali mi trovavo nella Basilica di San Pietro a Roma, poiché vi si celebrava la beatificazione di padre Massimiliano Kolbe, polacco, ucciso in un campo di concentramento nazista nel 1941 e che sarà canonizzato da Giovanni Paolo II° il 10 ottobre 1982.
Al tempo non si poteva procedere con la discussione sull’eroicità delle virtù del candidato agli altari prima che fossero passati cinquant’anni dalla sua morte e solo una dispensa di Paolo VI, dietro richiesta comune dei vescovi polacchi e tedeschi, rese possibile l’evento della beatificazione a soli trent’anni dalla morte.
Tre ricordi vivissimi: l’entrata in Basilica di Paolo VI sulla sedia gestatoria, come si usava allora, che era il trono mobile sul quale il Papa veniva portato a spalla per poter essere visto più facilmente dai fedeli durante le cerimonie pubbliche; il momento della dichiarazione di beatificazione con lo strappo del grande telo bianco per lo scoprimento solenne del ritratto del nuovo Beato; l’omelia appassionata di Montini che nel tratteggiare la vita di P. Kolbe ne ricordava la devozione all’Immacolata Concezione e il suo essere “alter Christus” nel proporsi alla morte per risparmiare alla sopravvivenza uno sconosciuto compagno di prigionia presentandosi al persecutore con questa espressione: «Sono un sacerdote cattolico».(1)
È risaputo che P. Kolbe avendo offerta la vita al posto di uno sconosciuto condannato a morte, quale rappresaglia per la fuga d’un prigioniero, fu rinchiuso in un bunker per morirvi di fame e il 14 agosto 1941, vigilia dell’Assunta, fu finito con una iniezione di veleno.
Lo sconosciuto era Franciszek Gajowniczek, padre di famiglia e militare nell’esercito polacco, il quale riuscì a sopravvivere ad Auschwitz ed è morto nel 1995. Quel giorno era presente in San Pietro insieme alla moglie e si può intuire quanto grande fosse la nostra umana curiosità nello scrutare da vicino quell’uomo in carne ed ossa per il quale trent’anni prima, P. Massimiliano aveva offerto liberamente la propria vita come sacrificio vivente poiché «non vi è amore più grande che quello di dare la propria vita per i propri amici» (Gv. 15, 13).
Il secondo episodio risale a poco più di dieci anni dopo.
Era il 26 settembre 1982 (nello stesso giorno del 1897 nasceva Giovanni Battista Montini) e Giovanni Paolo II era in visita a Brescia per la prima volta per onorare la memoria del suo predecessore.
Quel giorno non avevo potuto essere in compagnia degli amici del Movimento che passarono la notte dormendo per terra con i sacchi a pelo nel Convento di San Pietro in Castello e alle quattro del mattino, guidati da P. Gino Toppan, avevano guadagnato i primi posti in Piazza del Duomo (ora Piazza Paolo VI) davanti alla Cattedrale dove il papa si sarebbe recato per la Santa Messa.
Io mi trovavo invece all’inaugurazione ufficiale dell’Istituto “Paolo VI”, il Centro Internazionale di Studi e documentazione, promosso dall’Opera per l’Educazione Cristiana di Brescia allo scopo di raccogliere la documentazione e di favorire con opportune iniziative lo studio sulla vita e il pensiero di Paolo VI. Come detto, dal 1979, anno della sua nascita, svolgevo il ruolo di responsabile dell’archivio e delle pubblicazioni.
Magistrale fu il discorso pronunciato dal Pontefice polacco che ricordò a tutti quanto Paolo VI fosse stato un dono del Signore alla sua Chiesa, ma anche un dono del Signore all’umanità.
Alla parte pubblica seguì per Giovanni Paolo II una visita privata all’archivio documentale dell’Istituto nel quale avevo preparato in evidenza alcuni documenti autografi di Giovanni Battista Montini-Paolo VI tra i quali una grammatica della lingua polacca un po’ sdrucita, ma certo studiata e annotata dal giovane Montini. Pochi, infatti, sanno che l’unica esperienza di diplomazia estera di Montini fu quella di addetto alla nunziatura di Varsavia dal giugno all’ottobre 1923.
Giovanni Paolo II si soffermò non poco con quel suo sguardo intenso a leggere alcuni dei documenti esposti e quando la sua attenzione fu indirizzata alla grammatica polacca con le note autografe di Montini si fermò, alzò lo sguardo e con voce baritonale disse: “Però il polacco non lo conosceva!”.
Per quei pochi che hanno avuto il coraggio di arrivare sin qui, ne approfitto per chiudere con una breve riflessione.
La vita di ogni persona è sempre un susseguirsi di piccole e grandi circostanze che se ad uno sguardo superficiale possono apparire senza legami di significato in realtà per ogni esperienza cristiana disegnano una imperscrutabile trama di relazioni con cui il Signore indica ad ognuno la strada che, se abbracciata dalla nostra libertà, ci rende consapevoli dei numerosi doni ricevuti e dei compiti, a cui siamo pertanto chiamati per rendere la nostra vita piena di umanità e di verità, cioè santa.
(1) Non mi dilungo sulla vita e le opere di p. Kolbe e pertanto consiglio la ri-lettura del ritratto del Santo fatta da p. Antonio Sicari in uno dei primi <> promossi dal 1986 dal Centro Culturale <> di Brescia, pubblicato nel primo volume della serie da Jaca Book nel 1988, pp. 135-144, che, soprattutto nella parte finale, come consuetudine, riattualizzava il messaggio di p. Kolbe in riferimento al clima ecclesiale di quegli anni.
Ettore Sartorio