Editoriale Dialoghi Carmelitani (n. 3 giugno 2021)
C’è bisogno di perdono? Nel nostro tempo, nella nostra società, nella nostra vita? E quanto se ne sente la necessità? Quanto siamo disponibili, capaci e pronti al perdono ed alla riconciliazione? È da queste domande che ha preso avvio questo numero della nostra rivista.
Il tema è la parola perdono che non solo è interessante per la sua etimologia, che porta in sé un’idea di sovrappiù di dono, ma si pone, quando avviene, come un fatto che scompiglia le carte ed ha una trama di implicazioni e conseguenze che ci costringono a riflettere sul nostro vivere, non ci permettono di restare indifferenti e ci spingono a cercar di capire una logica che, da vicino, è incomprensibile. Il perdono si lega al tema del male, della giustizia e della memoria; nel nostro modo di pensarlo infatti presuppone una colpa. A che serve il perdono, se non a ricucire, rammendare, rimettere in sesto qualcosa che è stato inavvertitamente rovinato o intenzionalmente rotto?
Dopo una guerra c’è un cessate il fuoco, un armistizio, un trattato o, al massimo, una pace. La storia però è piena di paci infrante. Nessuna pace, neppure quella che ha funzionato per più lungo tempo, ha mai previsto il perdono, che è un delicato, paziente e complesso lavoro di ascolto, di confronto, di accettazione e rilancio, che è distante anni luce dalla pace intesa come accordo più o meno svantaggioso.
All’origine c’è una ferita, una più intima, nascosta e strutturale lacerazione, da cui siamo toccati e che anela ad una compensazione: il male, che faccio e che subisco, che non può essere cancellato, tanto meno ignorato, grida e vuole una risposta, chiede un senso ed esige una soluzione. Che cosa cercano gli uomini? Giustizia, che può assumere diverse forme più o meno vendicative: si cerca di porre dall’altra parte della bilancia qualcosa che pesi altrettanto quanto il danno e la ferita subita.
In Sudafrica, negli anni 90, alla vigilia delle prime elezioni democratiche, che avrebbero traghettato il Paese fuori dal regime di apartheid, vi era una forte contrapposizione tra chi voleva proiettare il Sudafrica in un futuro nuovo, pacifico e privo di ingiustizie, buttandosi alle spalle il passato, e chi pretendeva un’azione di giustizia e di condanna delle atrocità e violenze che avevano insanguinato la storia dei decenni precedenti, una sorta di processo di Norimberga africano. Divenne chiaro che, se la verità sul passato non fosse emersa e non fosse stata in qualche modo riconosciuta ufficialmente, il nuovo Sudafrica sarebbe stato delegittimato nel profondo, non sarebbe mai nato e una nuova storia non sarebbe stata possibile.
Era indispensabile fare i conti con i fatti e la memoria di quanto era accaduto, unica via per cercare una sorta di riappacificazione a livello personale e collettivo. La guerra civile sarebbe potuta essere l’altra strada che il popolo sudafricano rischiava di imboccare. Questo ingrato ed immane compito fu raccolto da due premi Nobel per la pace, il nuovo presidente Nelson Mandela e l’arcivescovo Desmond Tutu. Nacque la Trc (Truth and Reconciliation Commission), una commissione che mise a confronto vittime e carnefici e pose alla base la potenza della verità, dell’ascolto, della testimonianza.
«Perdonare e riconciliarsi – scrive Desmond Tutu – non significa far finta che le cose siano diverse da quelle che sono. Una vera riconciliazione può avvenire soltanto mettendo allo scoperto i propri sentimenti: la meschinità, la violenza, il dolore, la degradazione… la verità».
Il perdono non è quindi sinonimo di dimenticanza e neppure di impunità, anzi il perdono ha necessità di ricordare, altrimenti arrecherebbe una seconda offesa ed umiliazione a chi già è stato vittima. È la memoria che attiva una relazione col passato e così può generare il futuro. Non è possibile cambiare il passato, ma si può cambiare lo sguardo su di esso, i significati che gli si attribuiscono. Il perdono implica perciò la verità e la memoria. È la ricostruzione di una memoria per raggiungere una verità più ricca, intensa ed intima. Come si può immaginare che basti chiudere gli occhi sui torti, i conflitti, la tragicità dei delitti o sulla violenza? Ma come ristabilire, rigenerare, rammendare? Come è possibile?
Il perdono dà un futuro alla memoria e dice della non riducibilità di ciascun uomo ai propri errori (Paul Ricoeur direbbe «Tu vali molto di più delle tue azioni»), offre la possibilità di un cammino impervio e complesso, che non sempre riesce a realizzarsi e giungere alla meta, ma che può iniziare a sanare la ferita personale ed aprire ad una nuova, precedentemente impensabile, opportunità di comprensione e consapevolezza di sé e della vita.
L’idea di riconciliazione poi amplia ancora di più il concetto di coscienza e si apre alla ricostruzione della relazione con l’altro e gli altri. La giustizia diviene allora curare ed educare la potenza del racconto, del dolore che si modella in parola, del sentirsi e farsi ascoltare, della storia che tenta di mettere in ordine i vari frammenti feriti, le schegge affilate e dolorose, gli inganni, le falsità, le distorsioni e le immancabili manipolazioni.
Ma, al di là della giustizia, ne va del rispetto di sé e degli altri. In questo numero troverete delle storie e delle testimonianze che, senza la pretesa di dire tutta la verità sul perdono, narrano di strade possibili e umanamente coraggiose.
Sempre Paul Ricoeur, in una intervista del 2010, affermava: «Si tratta dunque di un’esperienza di reciprocità straordinariamente difficile e a caro prezzo. È un lutto, perché nel perdono abbiamo qualcosa da perdere. Del resto è molto evangelico: Chi vuole salvare la propria vita, la perderà».