Il magistero del Papa e le prospettive per la Chiesa oggi

Durante l’ultima Assemblea Generale del Movimento Ecclesiale Carmelitano, svoltasi online sabato 27 marzo 2021, P. Antonio Maria Sicari ha descritto le principali prospettive che il pontificato di Papa Francesco sta indicando alla Chiesa di oggi.

Sono per noi lo stimolo autorevole che ci invita ad uno sguardo attento per porre le fondamenta sul “domani” del Movimento nella Chiesa e nel mondo. Desideriamo partire da qui anche  per un nuovo slancio missionario.

 

IL MAGISTERO DEL PAPA E LE PROSPETTIVE PER LA CHIESA DI OGGI
di P. Antonio Maria Sicari ocd

Se si volesse provare a descrivere le principali prospettive che il Pontificato di Francesco sta indicando alla Chiesa di oggi, mi sembra che due (tra le altre) rivestano un particolare rilievo:

– il tema del gioioso Annuncio Evangelico che occorre portare al mondo, uscendo fino alle estreme periferie,

– e il tema della infinita Misericordia di Dio (sempre più grande di ogni peccato) che occorre sempre annunciare.

Da un lato, infatti, si tratta di due questioni che, nell’attuale magistero del nostro Papa, sono tra le più decisive e ricorrenti; dall’altro, però, sono anche tra quelle oggetto di maggiori critiche e più aggredite.

Le ho dunque scelte per cercare di comprendere e far comprendere il suo stile e il suo modo di inquadrare i problemi; e questo anche alla luce delle accuse pesanti, rivolte a Papa Francesco, per la maniera imprecisa e deviante con cui – secondo alcuni – eserciterebbe il suo ministero o non lo eserciterebbe affatto.

Ma non è questo l’argomento che qui ci interessa.

Tratterò invece il tema delle attuali prospettive ecclesiali in base a queste due esemplificazioni, perché i temi scelti toccano profondità tali che dovrebbero spalancarci davvero il cuore e la mente, già prima di ogni confronto ideologico.

E cercherò di affrontarle brevemente sia dal punto di vista della problematica teologica, sia dal punto di vista della autenticità magisteriale.

Il problema dell’Annuncio Evangelico

La questione è importante anche perché ci permette di  osservare la continuità magisteriale tra i vari Pontefici, negli ultimi cinquant’anni.

Dobbiamo tornare al 1974, quando si celebrò il Terzo Sinodo dei Vescovi sul tema dell’Evangelizzazione del mondo contemporaneo, che però si chiuse con una bocciatura del documento conclusivo, a causa della contrapposizione netta tra i Vescovi che tendevano a ridurre l’evangelizzazione alla promozione della giustizia sociale e quelli che volevano tenere separate le due questioni.

La soluzione venne demandata perciò al Papa Paolo VI che rispose l’8 dicembre 1975 con l’Evangelii nuntiandi, un nuovo tipo di documento che in seguito verrà qualificato come Esortazione apostolica post-sinodale.

Con esso si chiuse anche l’Anno Santo, iniziato nel Natale del 1974.

Nel documento il Papa insegnava che il compito primario della Chiesa era l’annuncio della salvezza, ma che la crescita e la liberazione dell’uomo ne facevano parte.

La formulazione risolutiva offerta dal Papa fu, dunque, questa: “Si tratta di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza” (n. 19).

E veniva indicata come prima via dell’Evangelizzazione la Testimonianza, con una espressione divenuta ormai celebre: “Gli uomini e le donne di oggi ascoltano più volentieri i testimoni che i maestri, o – se ascoltano i maestri – lo fanno perché sono dei testimoni” (n. 41).

Altrettanto celebre fu la conclusione del documento in cui Paolo VI insisteva: «Conserviamo dunque il fervore dello spirito. Conserviamo la dolce e confortante gioia d’evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime» (n. 80).

È una formula particolarmente importante perché restò nel cuore di un sacerdote (allora provinciale dei Gesuiti in Argentina) che verrà consacrato Vescovo nel 1992 e creato cardinale nel 2001, e cioè lo stesso Jorge Mario Bergoglio. Sappiamo inoltre che, prima di entrare nel Conclave dell’anno 2013, disse: «Bisogna scegliere un Papa che dalla contemplazione e dall’adorazione di Gesù Cristo aiuti la Chiesa a uscire da se stessa verso la periferia esistenziale dell’umanità, in modo da essere madre feconda della “dolce e confortante gioia di evangelizzare”».

In seguito Papa Francesco (proprio ai pellegrini bresciani che si erano recati a Roma per commemorare i 50 anni dall’elezione di papa Montini) citandola lungamente arriverà a dire: «L’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, per me, è il documento pastorale più grande che sia stato scritto fino a oggi».

Così, nell’anno stesso della sua elezione (2013), papa Francesco si trovò a dover emanare due importanti documenti magisteriali. Il primo per completare una enciclica già iniziata da Benedetto XVI [1]. Ma il più importante, dal punto di vista programmatico, fu il secondo: l’esortazione Evangelii gaudium con un esplicito riferimento al tema già impostato da Paolo VI.

Già questa particolare circostanza ci avverte che Papa Francesco, quando tratta un tema teologico, non pensa sia necessario ricominciare ogni volta dai primi principi, ma si preoccupa di ciò che pensa sia necessario aggiungere (soprattutto a livello di metodo ecclesiale e pastorale).

Trarne la conseguenza che egli non fa il Papa perché non parla di Dio, ma dei problemi dell’uomo a cui Dio si adatta, è francamente arbitrario.

Certo i 288 paragrafi della Evangelii gaudium insistono sul dovere della Chiesa di entrare “in uno stato permanente di missione” (n. 25) e sul dovere dei singoli cristiani di ”uscire”, “aprire le porte”, “prendere l’iniziativa” ,“coinvolgersi”, “accompagnare, “fruttificare e festeggiare” (n. 49).

Il Papa vuole insegnare “la rivoluzione della tenerezza” (n. 88), chiede ai predicatori di “evitare il moralismo e l’indottrinamento” (n.142) e di non restare “prigionieri della negatività” (n.159), ed esorta i missionari a “sentirsi bene nel cercare il bene del prossimo e nel desiderare la felicità degli altri ”(n. 272).

La gran parte del documento ha, dunque, a tema i nuovi comportamenti che i cristiani dovrebbero assumere ad ogni livello: è una inondazione di buoni consigli spirituali, morali, ascetici, psicologici, dialogici (e altro ancora), ma sarebbe un errore mettere nel mucchio anche l’incipit che invece non è affatto esortatorio (non prescrive qualcosa da fare…), ma è un’affermazione di principio (un “già accaduto”) che deve reggere tutto l’impegno missionario. Tutto nasce dal fatto che “la gioia del Vangelo ha riempito il cuore e la vita intera di coloro che si sono incontrati con Gesù” (n. 1).

È questo il metodo con cui papa Francesco riscatta il suo antropocentrismo, apparentemente eccessivo, e riporta spesso il discorso cristiano alle sue vere radici.

Si deve dunque affermare che il cuore del suo magistero (espresso già nella prima riga della sua Esortazione) è pienamente pulsante nel numero 23 della stessa esortazione, quando trova una terminologia nuova ed affascinante, spiegando che tutta la Chiesa e tutti i cristiani sono tali solo se vivono in “intimità con Gesù”, ma che questa intimità deve essere, però, itinerante: deve sapere accompagnare Gesù in tutte le periferie dove Lui vuole ardentemente recarsi.

Si tratta dunque di una “comunione missionaria”.

Ed è interessante – soprattutto per noi carmelitani – sottolineare il fatto che il Papa, per farsi comprendere, senta il bisogno, di ricorrere al magistero di san Giovanni della Croce: «Cristo è “il Vangelo eterno”, ma la sua ricchezza e la sua bellezza sono inesauribili. Egli è sempre giovane e fonte costante di novità. La Chiesa non cessa di stupirsi per “la profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio” (Rm 11,33). Diceva san Giovanni della Croce: “Questo spessore di sapienza e scienza di Dio è tanto profondo e immenso, che, benché l’anima sappia di esso, sempre può entrare più addentro» (n. 11).

Siamo ancora agli inizi dell’Esortazione, ma come non accorgersi che il tema della intimità missionaria con Gesù irrompe ancora, in maniera prepotente, nelle sue pagine conclusive:

«Non si può perseverare in un’evangelizzazione piena di fervore se non si resta convinti, in virtù della propria esperienza, che non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a tentoni, non è la stessa cosa poterlo ascoltare o ignorare la sua Parola, non è la stessa cosa poterlo contemplare, adorare, riposare in Lui, o non poterlo fare. Non è la stessa cosa cercare di costruire il mondo con il suo Vangelo piuttosto che farlo unicamente con la propria ragione. Sappiamo bene che la vita, con Gesù, diventa molto più piena e che con Lui è più facile trovare il senso di ogni cosa. È per questo che evangelizziamo. Il vero missionario, che non smette mai di essere discepolo, sa che Gesù cammina con lui, parla con lui, respira con lui, lavora con lui. Sente Gesù vivo insieme con lui nel mezzo dell’impegno missionario. Se uno non lo scopre presente nel cuore stesso dell’impresa missionaria, presto perde l’entusiasmo e smette di essere sicuro di ciò che trasmette, gli manca la forza e la passione. E una persona che non è convinta, entusiasta, sicura, innamorata, non convince nessuno» (n.266)

In conclusione, il programma missionario è gioioso non per la molteplicità delle sue effusioni, ma perché ha, a suo fondamento, l’esperienza e i doni indiscutibili della amicizia con Cristo: «Abbiamo a disposizione un tesoro di vita e di amore che non può ingannare» (n. 265)… «Uniti a Gesù, cerchiamo quello che Lui cerca, amiamo quello che Lui ama» (n. 267).

Insomma: «Amare Cristo e tutto ciò che è suo» resta ancora la formula più completa e decisiva della nostra fede cristiana: quella che ci chiede di restare abbracciati alla Persona stessa di Gesù (che l’Esortazione nomina ben 132 volte: “intimità” appunto), ma protendendoci verso tutto ciò che Lui vuole abbracciare (appunto perché «è suo»).

Il tema della “Inesauribile Misericordia”

Un altro tema dominante nel magistero dell’attuale Pontefice è senza dubbio quello della Misericordia, anch’esso annunciato nella Evangelii Gaudium: l’urgente bisogno che la Chiesa diventi una comunità evangelizzatrice che abbia “un desiderio inesauribile di offrire misericordia” (n. 24).

Se a riguardo della evangelizzazione notavamo la continuità esplicita nel magistero degli ultimi papi, ora è opportuno evidenziare un taglio diverso nell’approccio al tema della misericordia.

Papa Benedetto XVI, ad esempio, ci ha lasciato due Encicliche: la prima sulla Carità (Deus Caritas est) e la seconda sulla Speranza (Spe salvi), nelle quali il tema della misericordia sembrerebbe quasi assente.

Nella «Spe salvi» si limita a citare per tre volte lo stesso ritornello del Salmo 135: “Eterna è la sua misericordia!”.

Nella «Deus Caritas est» la misericordia viene nominata una sola volta, quando Benedetto XVI fa un inciso per ricordare che durante l’Ordinazione “ogni prete promette espressamente di essere, nel nome del Signore, accogliente e misericordioso verso i poveri e verso tutti i bisognosi di conforto e di aiuto» (n. 32).

In realtà, Papa Benedetto si riferiva con frequenza al tema dell’Amore e lo faceva con attenzione al suo rapporto con il tema della Verità. Il tema dell’Amore, ad esempio, è dominante in tutta l’enciclica «Deus Caritas est», ma è evidente che papa Benedetto è preoccupato soprattutto dal fatto che è necessario “credere all’Amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16), considerando l’amore anzitutto come luce che illumina l’intelligenza e superando l’emotivismo.

Papa Benedetto conosce bene quanto sia terribile il giudizio dato da Feuerbach ne l’Essenza del cristianesimo, là dove scrisse che «il cristianesimo non sarà distrutto dalle persecuzioni, ma «attraverso la sua irreversibile trasformazione interna in umanesimo ateo con l’aiuto degli stessi cristiani, guidati da un concetto di carità che nulla avrà a che fare con il Vangelo».

E perciò insiste sempre sul fatto che l’amore ha bisogno di verità, di luce.

Così nella seconda parte della sua Enciclica egli non fa la scelta di parlare della misericordia, ma quella di raccontarla soprattutto nella sua parte intelligentemente operativa: la parabola del Buon Samaritano gli serve per ricordare che l’Amore vero non è solo quello che si china sul caduto, ma quello che è anche capace di curare e guarire.

«Il programma del cristiano – il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù – è “un cuore che vede”. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente»(n. 31b).

Tutto questo anche papa Francesco lo sa bene (e lo vedremo tra breve), ma il suo approccio al tema intende partire sempre da un dato, e cioè quello della “inondazione di Misericordia” che si riversa sul mondo: anzitutto quella di Dio che ci avvolge come un oceano, e quella che anche noi possiamo attuare cercando di essere “misericordiosi come il Padre”.

Nel documento con cui ha indetto nel 2015 un “Giubileo Straordinario della Misericordia”, la parola misericordia ricorre ben 173 volte (in 35 paginette).

Il suo magistero al riguardo, è stato definito da qualcuno “torrenziale” ed è stato anche deriso come “misericordismo”.

E si ha avuto buon gioco a ironizzare su certe immagini che Papa Francesco ha usato fin dall’inizio, come quella del Dio che “ci è vicino come una mamma che canta la ninna nanna” (omelia dell’11 dicembre 2014).

Un magistero duramente aggredito… C’è chi si è spinto fino a mettere in questione il suo stesso Pontificato (almeno dal punto di vista del suo corretto esercizio) per il fatto che Papa Francesco proporrebbe ai cristiani un Dio che non è il vero Dio: «Un dio sminuito, un dio annacquato, un dio che non è padre, ma compagno. Un dio che non perdona, ma discolpa, un dio che non desidera salvare l’uomo, ma scagionarlo, un dio che non indica la legge divina ma cerca le attenuanti». Insomma, un magistero cedevole “alla logica del relativismo imperante oggi nel mondo”.

Il Papa insomma predicherebbe un cristianesimo deviato in cui la parola misericordia significa che Dio ha il dovere di perdonare, e l’uomo ha il diritto di essere perdonato senza bisogno di conversione.

Certo, mescolando tra loro le molteplici espressioni usate dal Papa in questi anni, si possono anche creare alcune esagerate formulazioni del tipo citato.

Ma è proprio qui che si svela l’inganno.

Il fatto è che il Papa – soprattutto in temi come quelli che stiamo analizzando – non ha in mente delle formule o delle dottrine, ma ha in mente “un Volto”: lo dice perfino nel titolo dato al suo documento giubilare (“Misericordiae Vultus”).

Precisando che «Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre. Il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi. Essa è divenuta viva, visibile e ha raggiunto il suo culmine in Gesù di Nazareth… con la sua parola, con i suoi gesti e con tutta la sua persona egli rivela la misericordia di Dio» (n.1)

E lo fa senza dimenticare che «ciò non significa svalutare la giustizia o renderla superflua, al contrario. Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono. Dio non rifiuta la giustizia, ma Egli la ingloba in un evento superiore dove si sperimenta l’amore che è a fondamento di una vera giustizia…» (n.21)

Ma quanto sia decisivo l’iniziale rimando al Volto di Colui che ha incarnato la Misericordia del Padre, lo scopriamo quando il Papa ci mostra, quasi pregando, dove lui lo contempla e invita noi a contemplarlo: “sulla Croce quando Gesù soffriva nella sua carne il drammatico incontro tra il peccato del mondo e la misericordia divina”, ma si preoccupava ancora di farci un ultimo dono in modo che noi “non camminassimo nella vita senza una Madre” (EvG , n. 285).

E poiché i documenti pontifici di solito si concludono tutti con uno sguardo e una preghiera alla Vergine Santa, è bello osservare che il Papa lo ha fatto con le parole della “salve Regina” descrivendoci Maria che – dopo aver anche lei contemplato “il Volto della Misericordia, suo Figlio Gesù”, comprende d’esser diventata la “Madre della Misericordia” e può anche lei volgere su di noi “i suoi occhi misericordiosi”: “la dolcezza del suo sguardo” (MiV, n. 23).

Non è certo difficile giustificare l’ampiezza frammentata e il linguaggio del Papa quando vuole descrivere «il grande fiume della misericordia che sgorga e scorre senza sosta dal cuore della Trinità, dall’intimo più profondo del mistero di Dio» (MiV, n. 25).

E non possiamo meravigliarci per il fatto che non si soffermi sulle diverse distinzioni necessarie in teologia (tra giustizia misericordia, tra conversione e perdono ecc. ). Lo ha fatto altre volte [2].

Ma non ha scritto i documenti sulla Misericordia per trasmettere un’idea del Divino, ma sempre e solo un Volto nella sua estrema concretezza: quello incarnato di Gesù Crocifisso.

Ed è questa la radicale verità su cui poggia tutto l’insegnamento di papa Francesco e si risolvono in anticipo tutte le problematiche teologiche: chi vuole essere rassicurato sul fatto che la Misericordia non diventi misericordismo, e non venga donata a scapito della Giustizia, e che il Dio misericordioso non diventi “un dio annacquato”, basta che si soffermi a contemplare il Volto del Dio Misericordioso, nel volto straziato di Gesù Crocifisso.

Tutti i contenuti teologici sono già trasmessi e unificati in un solo sguardo: quello che si sono scambiati Gesù e il ladro sulla Croce, nel pomeriggio del Venerdì Santo, prima di ritrovarsi a sera in Paradiso.

O, se si vuole: sono unificati nello sguardo che si sono scambiati Maria e il Figlio crocifisso nel momento in cui Lei (“Immacolata!”) capì d’essere stata destinata da sempre a diventare “Madre di Misericordia”.

 


 [1] Il primo documento fu l’Enciclica Lumen Fidei pubblicata nel giugno 2013 (tre mesi dopo l’elezione, ma scritta in realtà a quattro mani perché – iniziata da Benedetto XVI sul tema della Fede, dopo l’enciclica sulla Carità (Deus Caritas est) e quella sulla Speranza (Spe salvi) – fu solo completata e pubblicata da papa Francesco.

[2] Ricordiamo il discorso ai Vescovi Italiani: «Siamo annunciatori della verità di Cristo e della sua misericordia. Verità e misericordia, non disgiungiamole. Mai! (…) Senza la verità, l’amore si risolve in una scatola vuota, che ciascuno riempie a propria discrezione: e un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali, che in quanto tali non incidono sui progetti e sui processi di costruzione dello sviluppo umano» (Discorsi 19, V, 2014).

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