Osservazioni critiche sul DDL ZAN

Verso un dialogo teso ad una vera tutela della persona umana
(di Giuliana Chiovaro)

Sui media e sui social ricorrono con una certa frequenza notizie relative ad episodi di discriminazione o violenza verso omosessuali e transessuali, per il fatto di essere tali. Si pensi ad esempio all’omicidio di Acerra, all’omicidio Pomarelli, oppure ancora al caso del sindaco Zinno di San Giorgio a Cremano attaccato per gli auguri al compagno.

Negli ultimi anni pare sia in atto una vera e propria “emergenza omofobia, lesbofobia, genderfobia”.

Eppure, se analizziamo i dati raccolti dall’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD) notiamo che dal 2016 al 2019 le segnalazioni sui crimini d’odio per orientamento sessuale sono state un totale di 177; per identità di genere invece solo 16 segnalazioni. Mentre, negli stessi anni di riferimento, le segnalazioni dei crimini d’odio per credo religioso sono 248 e per razza/etnia e nazionalità ben 578. I dati ufficiali, cioè, pur dovendo considerare una quota di non emersione del fenomeno (che però vale anche per le altre fattispecie), non descrivono una emergenza di questo tipo.

Tuttavia, pur essendo tali dati forniti dal Ministero dell’Interno, per assicurare alle persone omosessuali la tutela contro maltrattamenti, violenze e aggressioni a fronte di un presunto vuoto normativo in materia, negli ultimi anni alla Commissione Giustizia della Camera si sono discussi cinque ddl (Boldrini, Zan, Scalfarotto, Perantoni, Bartolozzi) funzionali a modificare gli artt. 604 bis e 604 ter c.p., in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere.

Ma è davvero necessario aggiungere altre disposizioni incriminatrici?

Il nostro codice penale prevede già sanzioni proporzionate alla gravità del reato per i delitti contro la vita (art. 575 e ss. c.p.), contro l’incolumità personale (art. 581 e ss. c.p.), i delitti contro l’onore come la diffamazione (art. 595 c.p.), i delitti contro la personalità individuale (art. 600 e ss. c.p.), i delitti contro la libertà personale come il sequestro di persona (art. 605 c.p.) o la violenza sessuale (art. 609 e ss. c.p.), i delitti contro la libertà morale come la violenza privata (art. 610 c.p.), la minaccia (art. 612 c.p.) e gli atti persecutori (art. 612 bis c.p.). Fino al 2016 l’ordinamento ha ritenuto illecita persino la semplice ingiuria (art. 594 c.p.).

Si aggiunga peraltro che, mentre ci si concentra sull’ipotesi di modifica al codice penale, questo presunto allarme sociale è stato affrontato anche con altri interventi che già sono in atto. Sussiste già, infatti, una specifica disposizione di natura civilistica (la disciplina che applica la Direttiva europea n.78 del 2000) che vieta il licenziamento o la disparità di trattamento di un lavoratore a causa del suo orientamento sessuale o della sua identità di genere; oppure si possono applicare sanzioni civili quali il risarcimento dei danni, com’è accaduto ad un giovane siciliano cui era stata revocata la patente di guida perché gay e a cui la Corte di Appello di Catania ha riconosciuto un risarcimento di 20.000 euro; si possono comminare, ancora, sanzioni amministrative, com’è accaduto per esempio con l’espulsione dall’università decisa dal Consiglio accademico dell’Università di Milano di uno studente che aveva imbrattato e riempito di insulti i manifesti dell’Arcigay.

A fronte di una tutela già garantita dall’ordinamento giuridico, c’è il rischio che l’inasprimento delle sanzioni penali si traduca in confusione normativa (là dove si debbano poi definire i confini precisi della sua applicazione) e nella possibilità di altre discriminazioni sia verso coloro che dissentono dall’impianto culturale che sta dietro alla norma, sia verso gli stessi omosessuali o transessuali. Con l’obiettivo di porre rimedio a una potenziale ingiustizia, si rischia di innescarne di nuove e ancora più gravi.

Parimenti complessa appare la questione definitoria. Quando si parla di discriminazioni per motivi di razza, provenienza geografica, etnia, religione siamo di fronte a concetti largamente condivisi, inequivocabili. Invece sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere ci confrontiamo con concetti tutt’altro che definiti in maniera univoca. Ma il ddl Zan, in apertura, quasi come fosse una dichiarazione di intenti, inserisce all’art. 1 la definizione di “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” ed “identità di genere”.

Da una semplice lettura, pare inevitabile notare come tali definizioni, per come sono, contengono formule generiche e/o imprecise che prestano il fianco ad interpretazioni discrezionali da parte dei cittadini e, prima ancora, da parte dei giudici, i primi chiamati ad interpretare la legge ai fini della sua applicazione.

A tal riguardo occorre precisare che nella redazione di un qualunque testo legislativo bisogna prestare particolare attenzione alle definizioni: se queste sono troppo strette, con la loro precisione vincolano il giudice alla volontà del legislatore; viceversa se sono troppo ampie, lasciano spazio alla libertà di interpretazione e quindi alla discrezionalità del giudice nell’applicazione della legge. Se ogni giudice interpreta quel testo come crede più giusto, non c’è un’uniformità applicativa nell’intero territorio nazionale, e ciò può creare altre e più gravi discriminazioni di quelle che si vogliono evitare.

Inoltre, ci sono persino studiosi dell’area Lgbt secondo cui il riferimento all’ “orientamento sessuale”, all’ “identità” e al “ruolo” non possono esaurire la complessità della sfera sessuale e il suo rapporto con la realtà sociale e culturale. Quindi a cercare di “categorizzare” delle categorie non limitabili, si rischia di creare perciò stesso delle discriminazioni!

Per non incorrere in questi gravi errori, nel codice penale al Capo III dei “delitti contro la libertà individuale”, alla Sez. I, nel tipizzare la condotta, invece di indicare un elenco di motivi che spingono a compiere atti discriminatori o di violenza, tutt’al più, se un’aggiunta fosse necessaria, si potrebbe semplicemente tipizzare la condotta di “chi istiga a commettere o commette atti discriminatori o violenti nei confronti di ogni persona in quanto tale. Perché è la persona che va tutelata, non importa quali siano i suoi orientamenti sessuali o come si percepisce. E questo la Chiesa Cattolica lo sa bene: “ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza.”[1]

Insomma, ci saranno sempre delle categorie di persone escluse dall’elenco. Se invece si inseriscono nella onnicomprensiva classificazione di “persona umana”, la legge li potrebbe facilmente tutelare in quanto tale, senza rischio di esclusioni. Allora sì che riusciremo a riconoscere a tutti quella sacra dignità che è un dono fatto alla creatura.

Sotto altro aspetto pare opportuno notare come, fornendo tali definizioni, il legislatore si appropria del diritto di disporre a proprio piacimento dei concetti naturali di “sesso” e di chi sia (o a questo punto di cosa sia) “l’uomo”, “la donna”, di cosa sia “la famiglia” o “la sessualità”. Eppure, nessuno dovrebbe rivendicare tale potere.

Con la definizione fornita di “identità di genere”, il concetto stesso d’identità non è più quello antropologico o biologico, non sussiste più il “dimorfismo sessuale” (ovvero la differenza sessuale tra uomini e donne) comprovato dalla genetica, dalla endocrinologia e dalla neurologia, ma il sesso diventa qualcosa di soggettivo oltre che relativo! Io, cittadino, posso decidere arbitrariamente secondo il desiderio del momento. E, grazie a questa legge, ogni bisogno del momento diventerà un diritto.

Come rilevato dalla Segreteria di Stato del Vaticano, la differenza sessuale è considerata dalla Sacra Scrittura, dalla Tradizione ecclesiale, dal Magistero autentico dei Papi e dei Vescovi, “secondo una prospettiva antropologica non disponibile, in quanto derivata dalla stessa Rivelazione divina.”[2]

Per intenderci, la visione antropologica cristiana vede nella sessualità una componente fondamentale della personalità, del suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare con gli altri e di vivere l’amore umano. Pertanto, essa è parte integrante dello sviluppo della personalità e dell’inserimento della persona nella società. E la diversità tra uomo e donna, connessa alla complementarietà dei due sessi, risponde compiutamente al disegno di Dio secondo la vocazione cui ciascuno è chiamato.

Ora, il confinare questi concetti biologici, psicologici e antropologici entro limiti sociali e politici (che è quello che in fondo si sta facendo con la legislazione in questione), comporta due ulteriori rischi distinti ma collegati: in primo luogo significa ledere la prospettiva antropologica delle fede cattolica e limitare la missione pastorale della Chiesa, in secondo luogo significa anche ledere la libertà di espressione e manifestazione del pensiero di tutti i cittadini.

Per quanto concerne il primo rischio, la missione pastorale della Chiesa è garantita dall’art. 2 del Concordato del 1984 che ha sostituito i Patti Lateranensi del ’1929. Infatti la Repubblica in tal maniera potrebbe ferire alcuni aspetti di libertà che l’accordo di revisione del Concordato assicura.

Come evidenziato dal costituzionalista Cesare Mirabelli: “l’accordo di revisione del Concordato garantisce alla Chiesa dei diritti che già la Costituzione afferma e, sotto questo aspetto, è un rafforzamento dei diritti costituzionali. In particolare, la libertà di educare, la libertà di esercitare il magistero e per i cattolici, ma evidentemente per tutti, la libertà di manifestazione del pensiero, di parola, di scritto ed esprimere il proprio il pensiero con ogni altro mezzo, e poi la libertà delle scuole. Si tratta di aspetti che il Disegno di Legge Zan per qualche profilo mette a rischio. Perciò non si tratta di contestare o di contrastare la protezione particolare che vuole essere assicurata a determinate categorie di persone. Questa è una scelta politica che evidentemente lo Stato liberamente può fare, né si tratta di impedire all’autonomia dello Stato di legiferare, ma di avvisare, di segnalare che alcuni aspetti della norma verrebbero a ferire, a contrastare con un impegno che lo Stato ha preso”.

Per quanto attiene invece al secondo rischio, se il ddl Zan fosse approvato, si potrebbero facilmente sanzionare penalmente espressioni o comportamenti che sono riconducibili a convincimenti, ma che non sono né di aggressione, né di violenza, né di incitazione all’odio, anche se altri, su queste opinioni, possono fondare le loro condotte. Anche sotto questo aspetto, cercando di tutelare la libertà di espressione di sé di alcuni, si limita la libertà (al punto da poterne irrogare una sanzione penale) di chi non è in linea con il pensiero dominante.

L’art. 2 del ddl Zan, infatti, prevede la reclusione (fino ad un anno e sei mesi oppure da sei mesi a quattro anni) per chi “propaganda idee […] o istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”. Con le definizioni di cui all’art. 1 così vaghe e la conseguente ampia discrezionalità dell’organo giudicante, il limite tra libertà di espressione e atto discriminatorio è veramente sottile. Di contro, invece, la legge penale, proprio perché è chiamata ad incidere sulla libertà dei cittadini, contiene un’esigenza di certezza definitoria ineliminabile.

E ancora, manipolando concetti così fluidi in maniera così imprecisa e priva di rispetto nei confronti del pluralismo di idee e religioso, il Disegno di Legge Zan viola ipso facto il principio di laicità dello Stato.

Invero, la nostra è una Repubblica laica e aconfessionale. E i due termini non sono sinonimi come molti pensano! Mentre l’“aconfessionalità” indica il fatto che non ci sia una religione di Stato, la “laicità” invece (come recentemente ricordato dal Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi in un suo recente intervento in Senato) “non è indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso, ma è tutela del pluralismo e della diversità”. Lo Stato, conscio dell’importanza che la religione riveste per la maggioranza dei suoi cittadini, s’impegna a garantire la piena realizzazione dell’individuo anche in questo campo. Ecco da dove deriva l’assistenza spirituale dei cittadini in determinate strutture pubbliche (forze armate, ospedali, istituti di assistenza e di cura), così come garantito dall’art. 11 dell’Accordo di Villa Madama.

Ma come si può tutelare il pluralismo, se la diversità di opinione rischia di essere imbavagliata dal “pensiero dominante”?

Altro punto dolente è l’art. 7 del Disegno di legge Zan che istituisce la Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, imponendo alle scuole di provvedere ad organizzare cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile.

Qui le criticità riguardano la libertà della scuola e la libertà educativa dei genitori. La legge, se varata in questi termini, potrebbe diventare una presenza non allineata con l’impostazione educativa dei genitori o l’orientamento, ad esempio, di istituzioni che possono essere cattoliche, ma anche di altro orientamento culturale, che hanno una diversa identità.

Si noti peraltro che, mentre l’art. 9 del Concordato del 1984 prevede che l’insegnamento della dottrina cattolica sia assicurato in tutte le scuole salvo il diritto di non avvalersene, l’art. 7 del ddl Zan non contiene nessuna corrispettiva clausola! Dov’è finito il rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori? Per l’insegnamento della religione, al momento dell’iscrizione è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o meno di tale insegnamento, senza conseguenze discriminatorie; per la propaganda dell’ideologia gender, transgender, contro l’omofobia, lesbofobia e la bifobia invece questa libertà non è prevista.

L’educazione all’affettività ha bisogno di un linguaggio adeguato e misurato, non di propaganda filosofica e culturale, che può diventare ideologica e politica, portata avanti senza tener conto dell’età e dei veri bisogni dei giovani. Bisogna tener conto che non hanno ancora raggiunto la piena maturità e si accingono a scoprire la vita con curiosità ed interesse. Piuttosto è necessario aiutarli a sviluppare un senso critico a fronte di un’invasione di proposte diverse, anche sul fronte dell’educazione sessuale e mettendoli in guardia rispetto ad una pornografia senza controllo. Davanti ad un bombardamento di messaggi ambigui, che provocano il disorientamento emotivo e affettivo, occorre aiutarli a riconoscere influenze positive e a prendere le distanze da tutto ciò che deforma la loro capacità di amare.

In conclusione, soltanto la strada del dialogo (fatta di ascolto, di informazione, confronto scevro da pregiudizi e finalizzato a porgere proposte diplomatiche e costruttive) sarà il percorso più efficace per trasformare le incomprensioni e le faide, in risorse per lo sviluppo di una società più aperta ed umana, tesa alla tutela della persona.

La proposta educativa cristiana arricchisce il dialogo con la finalità di “favorire la realizzazione dell’uomo attraverso lo sviluppo di tutto il suo essere, spirito incarnato, e dei doni di natura e di grazia di cui è arricchito da Dio.”[3] Ciò esige un avvicinamento all’altro come persona da accogliere in quanto tale, a prescindere da ogni diversità. Solo così si promuove la dignità originaria di ogni uomo e donna, insopprimibile, indisponibile a qualsiasi potere o ideologia.

 

[1]  Papa Francesco, Esortazione Apostolica Postsinodale “AmorisLaetitia”, 250).

[2] NOTA VERBALE, Segreteria di Stato Sezione per i Rapporti con gli Stati, Città del Vaticano, 17 giugno 2021.

[3] SACRA CONGREGAZIONE SULL’EDUCAZIONE CATTOLICA, Orientamenti educativi sull’amore umano, lineamenti di educazione sessuale, n.21

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