RAGAZZI … C’È BISOGNO DI VOI!

RAGAZZI … C’È BISOGNO DI VOI!

Intervista al Prof. Gustavo Pietropolli Charmet (a cura di Meri Polito)

La pandemia ha sconvolto il mondo in ogni suo aspetto – sanitario, sociale, civile, educativo, economico – e con peculiarità diverse a seconda della generazione di appartenenza degli individui coinvolti. Abbiamo posto al Prof. Charmet, noto psichiatra e psicoterapeuta dell’adolescenza, alcune domande sull’impatto che la la pandemia ha avuto ed avrà sui nostri giovani, nelle cui mani è il futuro del mondo.

Oggi, dopo mesi di lockdown e restrizioni causate dalla pandemia, molti ragazzi e giovani necessitano, oltre che di cure fisiche (quando necessario), di una cura che li aiuti a ricomprendersi e risignificare i momenti della vita. Quali sono, secondo lei, le priorità per i tempi che ci attendono e quale è la cura di cui i giovani hanno più bisogno?

A causa della pandemia alcuni ragazzi hanno subito danni importanti ma non di natura biologica, bensì di natura educativa, o meglio “diseducativa” e non tanto perché sono state imposte loro delle restrizioni che hanno potuto tollerare grazie ad internet ed ai social, ma perché pare sia stata sciupata un’occasione così “lugubre”, orribile, però utile  da un punto di vista educativo. C’era la morte che girava per strada nelle nostre città e gli educatori hanno perso tempo nel raccomandare di lavarsi le mani e di non sputarsi addosso, di mettersi le mascherine ecc., quando il problema era quello di parlare finalmente ai ragazzi, imparare a fare educazione alla morte e aiutarli dicendo: “Ragazzi, c’è bisogno di voi, di un livello di responsabilità, di consapevolezza, di impegno sociale maggiore, perché l’umanità è minacciata dalla natura che ci ha spedito un virus che forse vuole anche vendicare tutti i torti che la natura stessa ha subito!”. Se non partiamo dalla consapevolezza dell’esistenza del pericolo e di come la morte viaggi assieme alla vita… non è che si possa farla franca dal punto di vista educativo. Si devono aiutare i ragazzi ad aumentare il loro senso di responsabilità nei confronti del pericolo che li minaccia  decidendo se stare dalla parte della morte o dalla parte della vita. In Italia non si parla della morte né in famiglia né in nessun altro luogo educativo. Non è semplice riuscire a sviluppare un sentimento etico se non si ha neppure il coraggio di affrontare la dimensione precaria della nostra vita. Siccome verosimilmente dovremo abituarci a convivere con il pericolo e con il virus, non dovremo lasciarci sfuggire le occasioni di parlare con i ragazzi per impegnarli nella vera cura, che è la cura dell’ambiente in cui vivono, dell’umanità, delle relazioni. Mi auguro che si possa acchiappare per la coda questo periodo tragico ed utilizzarlo realmente per riuscire a far sì che una voce autorevole si alzi e parli ai ragazzi di come stanno veramente le cose. Le cose non stanno come dice il Comitato Tecnico Scientifico, cioè non stanno soltanto nelle misure preventive, c’è ben altro: c’è da organizzare la sopravvivenza dell’intera specie umana, del pianeta. Su questi temi grandi che riguardano la nostra specie, che riguardano molto da vicino la loro generazione, una frangia di giovani è riuscita a capire e a responsabilizzarsi circa ciò che minaccia il pianeta, circa la necessità di cambiare il modo di produrre la merce, per il rispetto del pianeta che non può continuare ad essere maltrattato, ad essere derubato. Questo l’hanno capito. Vuol dire che possono davvero provare a prendersi cura del pianeta che  appartiene loro, che possono davvero schierarsi responsabilmente dalla parte della vita contro tutto ciò che la uccide. È questo che noi  (pedagogisti, psicologi, gente di cultura, gente che scrive) possiamo fare: cercare di aumentare il livello di consapevolezza circa la gravità della minaccia perché non ce la si cava solamente lavandosi le mani. Importante è organizzare una resistenza della comunità sociale, di solidarietà. L’unione è una condivisione davanti al sentimento di minaccia del valore supremo della vita. Bisogna avere buoni motivi per aiutare i ragazzi a capire che il senso della vita è anche essere consapevoli della propria morte, della propria finitezza e non solo della morte degli altri, e come questo possa aiutare a dare senso alla vita e non a toglierlo. Una situazione di tragedia così imponente non l’abbiamo mai vissuta, a parte le guerre. Senza i vaccini la minaccia sarebbe stata veramente grave e non si poteva continuare ad illudersi che bastasse la mascherina. Ai ragazzi non l’abbiamo raccontata giusta e quindi loro adesso festeggiano la fine o la riduzione dei limiti come se ciò fosse una vittoria, ma se di vittoria vogliamo parlare dobbiamo dire che i vaccini hanno consentito di ridurre il numero di contagi, il numero dei morti. In Italia l’educazione alla morte è stata una sconfitta, delegata alla medicina e non se ne parla più. Non riesco a vedere dove nella scuola si parli della morte, come se fosse pericoloso, come se fosse istigazione al suicidio, come se la scoperta della morte dovesse farli impazzire. Quale altro metodo c’è per crescere se non diventare consapevoli del nostro destino?

 L’essere stati relegati in casa per tanto tempo e limitati nella mobilità e nelle proprie scelte ed iniziative, ha messo e sta mettendo alla prova molte relazioni familiari e sociali. Nella situazione attuale, quali sono le difficoltà più marcate a cui dobbiamo porre attenzione? Nella crisi, sono emerse criticità educative che in realtà erano già presenti da prima? 

È chiaro che durante il periodo dei lockdown causati dalla pandemia hanno dovuto intervenire pesantemente la famiglia, la scuola, la comunità sociale e la comunità scientifica. Di queste istituzioni la famiglia è quella che ha retto meglio, secondo me. È chiaro che se parliamo di una famiglia dove era già presente, indipendentemente dalla pandemia, un livello di violenza espressa e quindi di incompetenza educativa molto elevata, allora il fatto che i ragazzi siano dovuti restare ancora più a lungo all’interno di una rete di relazioni che non li poteva aiutare, li ha costretti in qualche modo a fare delle scelte dissennate. Nel complesso, tuttavia, mi sembra che la famiglia abbia superato la prova. La caratteristica delle nuove famiglie consiste nel fatto che si è abbassato il livello di richiesta di rispetto delle regole e si è innalzato il tentativo di realizzare delle buone relazioni. In una situazione di coabitazione forzata e prolungata è stato positivo il fatto che il rispetto delle regole, le trasgressioni e i castighi siano passati in secondo piano rispetto al tentativo di organizzare una qualità delle relazioni che consentisse agli adulti di far giungere ai ragazzi un messaggio affettivo piuttosto che normativo.

Quello che ha nuociuto ai ragazzi non è  stata tanto la famiglia, quanto il fatto di “stare dentro”. Credo vada fatta la distinzione tra “stare in famiglia” e “stare dentro la casa”, cioè dentro un recinto, dentro la cameretta o comunque dentro un edificio e non fuori dove ci sono la vita, l’apprendimento e lo studio delle materie fondamentali della vita: la socializzazione, la sessualità, la scoperta del territorio. I ragazzi sono stati “chiusi dentro”. E “dentro” hanno incontrato il loro corpo ed il computer: due cose pericolose, perché il corpo, se non ha dalla sua la relazione affettiva, l’agonismo sportivo, il movimento, la lotta, la danza, incontrato in sé e per sé è un corpo imbarazzante. Non deve stupire quindi che, attualmente, alcune delle preoccupazioni maggiori dei terapeuti siano l’autolesionismo, i tentativi di suicidio ed i disturbi della condotta alimentare, come se nel “corpo a corpo” con il proprio corpo, “chiusi dentro”, i ragazzi si fossero trovati nella necessità di “divertirsi” o di attaccare il corpo. Sono aumentati i ragazzi che si “divertono” a tagliarsi la pelle e a prodursi del male. Lo “stare dentro” e trovare un corpo da gestire senza tutti gli aiuti normalmente presenti (confronto, emulazione, coppia…) è stata una delle cause principali dei danni che la pandemia ha prodotto. Oltre all’incontro col proprio corpo c’è stato quello con internet. Costringere i ragazzi  “dentro” ha voluto dire che l’unico modo per andare verso il gruppo, l’amicizia, la relazione è stato l’utilizzo di internet. Questo ha aumentato la confusione tra la realtà sociale e la realtà virtuale, privilegiando quasi il valore e il significato della realtà virtuale rispetto a quella sociale, scolastica, relazionale, sportiva. È “stare dentro” che ha aumentato i rischi ed i pericoli da un punto di vista evolutivo. Il vero dramma del periodo di lockdown, lo ripeto, credo che sia stato lo stare dentro la casa e l’impossibilità di stare fuori ad imparare cosa sia veramente la vita. 

Il tempo difficile del covid ha tuttavia fatto emergere nei nostri ragazzi anche risorse nuove o per lo meno inattese. Da questo punto di vista positivo, quali possono essere le prospettive più interessanti dal punto di vista dei giovani?

Molti ragazzi hanno apprezzato il fatto che la restrizione della libertà di movimento abbia aumentato il movimento della loro mente, come funziona la loro mente, la loro capacità di muoversi al suo interno per cercare di capire chi fossero. È aumentata la capacità introspettiva e molti si sono incontrati con il bisogno di espressione e di comunicazione. Qualcuno ha ripreso la vecchia usanza di scrivere un diario, di scriversi con gli amici: d’altra parte è noto che scrive di più chi è in carcere che a scuola! Ridotti in cattività, anche loro si sono messi a leggere e a scrivere.

Hanno cercato di difendere la scuola che traballava da tutte le parti. Hanno ripudiato la DAD, un po’ come un inganno, perché la si voleva spacciare come scuola mentre è la sua negazione. La lezione ex-cathedra non funziona in internet: se la lezione di scuola arriva mentre c’è anche la nonna che prepara il minestrone, è una situazione inadeguata. I ragazzi invece hanno cercato di aiutare la scuola cercando di recuperare la possibilità di esserci tutti, non solo per la questione di stare con i compagni e gli amici – che è secondaria – ma perché con una scuola che traballa, traballa anche la loro identità di studenti. Questa è l’unica identità sociale che mettiamo a loro disposizione, quindi se non possono neanche più sentirsi studenti di una scuola che non sa se li vuole ancora o meno, quello che viene provocato loro è un danno serio. Il fatto che la scuola sia stata così incerta e caotica, confusa nei suoi comportamenti ha sconquassato anche il tenue filo che i ragazzi stavano per costruire verso il futuro, verso il loro futuro: “cosa sono capace di fare? Quale sarà la mia arte, il mio mestiere? Qual è la mia vera vocazione?”. La scuola non è che intervenga direttamente su queste domande, ma indirettamente garantisce che c’è un futuro per il quale vale la pena di allenarsi. Se la scuola traballa e non si capisce più se ci sarà o non ci sarà, quando ci sarà, è un danno per i ragazzi. Ho visto, però, nella difesa della scuola da parte dei ragazzi, qualcosa di molto positivo. È come difendere la Terra. Hanno difeso quello che rimaneva della loro scuola ed è questo che potrà essere utilizzato in futuro: uno sforzo che coinvolga anche i ragazzi e una rifondazione profonda e radicale della scuola che deve essere modernizzata, aggiornata. Altro che DAD! Ci vuole una coralità di discussioni, di ricerche e su questo mi sembra che i ragazzi sarebbero molto disponibili a lavorare se si trovasse l’autorevolezza di dire: “ragazzi, abbiamo bisogno del vostro aiuto per poter salvare la scuola, altrimenti la scuola così non serve a niente”.

I nostri giovani si stanno dimostrando responsabili e fiduciosi nella scienza medica accorrendo in massa a vaccinarsi. Come fare di queste scelte un punto di partenza per costruire un’identità in un mondo dove gli adulti pare stiano fallendo?

È chiaro che da parte loro ci sia anche un uso strumentale del vaccino, del green pass ottenuto, per potersi garantire le vacanze, ma anche per poter avere la certezza di un ritorno a scuola senza ulteriori difficoltà. La ricerca e la scoperta dei vaccini hanno aiutato i ragazzi a capire l’importanza della competenza, della scienza come approfondimento, il contrario di internet e wikipedia. Così come l’importanza di entrare nei segreti della natura e riuscire ad aiutarla a non mettersi contro l’umanità, ma a favore dell’umanità attraverso i vaccini. Credo che questa comprensione sia importante, altrimenti se passa il pensiero e se diventa una consuetudine ritenere che la competenza non sia necessaria, che l’importante sia saper vendere bene la merce e fare finta … allora siamo perduti. 

Il filosofo italiano Luciano Floridi ha coniato il termine on-life, per indicare come la nostra vita non si sviluppi più su due piani (on-line e off-line), ma che esiste un continuum tra quel che si definiva, solo pochi anni fa, reale e virtuale. In questo tempo che abbiamo vissuto e per le trasformazioni tecnologico-informatiche che hanno posizionato in modo costante i ragazzi dietro ad uno schermo, come è cambiato nei giovani il modo di concepire sé stessi e le relazioni? Qual è la sfida educativa in questa nuova realtà in veloce e costante trasformazione?

La faccenda è complicata e difficile. Io credo che in parte sia vero che già oggi possiamo vedere i segni della modificazione delle modalità di pensare, di studiare, di capire e di capirsi legata all’utilizzo degli strumenti informatici, alla loro pervasività e alla relazione di dipendenza e di gioco che i ragazzi hanno con gli strumenti informatici. Nel mio mestiere due manifestazioni mi hanno sorpreso e sono la testimonianza di come on line – off line siano una faccenda reale: quando i ragazzi mi parlano dei loro amici non è facile capire se parlano di amici che incontrano nella realtà sociale, con i quali condividono delle azioni, o se parlano di amici “virtuali”, che magari non hanno mai né visto né conosciuto, dei quali ignorano le sembianze fisiche perché il corpo non c’entra. Hanno “chattato”, giocato on line e poi sono diventati amici, si sono confidati non potendo far altro che parlare di sé, della relazione con l’altro e delle relazioni con la famiglia. In questo modo di considerare amico uno che neppure si conosce perché non si è mai visto (per non parlare dell’amore e della costruzione di relazioni amorose che a volte, finiscono per diventare perfino un matrimonio) c’è un modo di pensare all’amicizia e all’amore che è mentalmente modificato rispetto alla tradizione; c’è un modo di vivere nella realtà virtuale che va già alla ricerca dell’amicizia e dell’amore, del gioco, del successo, dell’incontro, dello scherzo.

I sistemi di valutazione degli affetti e dei sentimenti sono stati modificati dalla relazione con internet. Che si possa dire che l’amico di internet è la stessa cosa dell’amico con il quale si va a prendere il gelato è un cambiamento importante. Significa che i modi di giudicare le relazioni sono cambiati. In questo senso ognuno può verificare che siamo di fronte a dei cambiamenti nel modo di pensare, di sentire le proprie emozioni e i propri sentimenti, avvertendo che si può provare un sentimento di affetto, di amicizia e di amore anche per un “non corpo”, un personaggio senza corpo.

Mi succede ormai quotidianamente di dover dire: “Non ho capito. Questo amico l’hai mai visto oppure gli parli in inglese, di notte, per via dei fusi orari…?” e loro mi guardano allibiti per dire: “Che differenza c’è? Un amico è un amico”. Il progresso informatico e quello tecnologico sono importanti dal punto di vista organizzativo ed economico, ma se ciò dovesse arrivare fino al mondo educativo, a quello affettivo e relazionale, dovremo ripensare molte delle nostre certezze. Alcune mamme fanno una “educazione a distanza” perché la mamma che lavora, per forza di cose, mantiene il contatto con il figlio attraverso una consolle che allestisce in fabbrica, in azienda, per rimanere continuamente informata di ciò che succede al figlio. Queste mamme hanno uno straordinario successo: hanno ridotto il tempo che trascorrono con i figli, ma hanno straordinariamente aumentato il loro controllo a distanza, la loro presenza virtuale, e questo tipo di mamma è ancora più potente della mamma che ha dedicato un sacco di tempo al lavoro. Se chiedo “Parliamo di come la mamma, dal di dentro della tua mente, ti parla… cosa ti dice? Cosa ti suggerisce? Cosa prova di positivo? Di cosa si preoccupa?”. I ragazzi partono sempre dicendo: “NOI abbiamo pensato che…” Noto quindi molta difficoltà a differenziare il proprio pensiero da quello della mamma e mi sembra una novità, perché in passato questo non succedeva. Preferisco poi non parlare delle malefatte di internet per le quali non mi basterebbe una giornata. Se penso alla quantità di siti che istigano all’anoressia, all’autolesionismo, al suicidio… 

Oggi sottoponiamo spesso i nostri figli a processi di infantilizzazione che portano i ragazzi a perdere la capacità di controllo sulla propria vita e spesso a sviluppare rabbia, depressione e perfino tendenze suicidarie. Poi ci convinciamo che tutto ciò sia normale: colpa dell’adolescenza! Un periodo di parcheggio sempre più dilatato, in attesa di decidere che cosa fare della propria vita. Professore, che cosa pensa delle teorie secondo cui l’adolescenza, come un distinto periodo critico affollato da problematiche esistenziali e stati d’animo tumultuosi, sarebbe un’invenzione moderna dell’Occidente, mentre nel corso della maggior parte della storia umana, i giovani sono diventati adulti, lavorando fianco a fianco con gli adulti, non molto tempo dopo la pubertà?

È difficile per me rispondere a questa domanda. 50 anni fa, quando ho cominciato a fare questo lavoro lavorando con i ragazzi, mi sembrava che si fosse esagerato nel dare grande importanza al determinismo infantile, come se l’adolescenza fosse una ricapitolazione di quello che era successo prima, e se prima tutto era andato bene, allora andava bene anche dopo, ma se prima fossero rimasti dei problemi aperti allora l’adolescenza avrebbe presentato il conto. A me sembrava che fosse importante cercare di vedere quali fossero le fonti di sofferenza che nascono nell’adolescenza, perché si “è” adolescenti e non perché si è stati bambini maltrattati, feriti. Su questo ho cercato di fare ricerche. Sarei sostenitore del fatto che l’adolescenza non è un’invenzione, ma è un’età socialmente determinata e ogni società ha la sua adolescenza: si può accorciarla, farla diventare cortissima per diventare già grandi a 12-13 anni e si può anche dilatarla, cominciare sempre prima e non finire quasi mai. È una domanda che devo lasciare aperta … L’adolescenza ha un inizio e non è che non si concluda mai: si conclude solo se si risolvono i compiti evolutivi di quell’età. Quello che sta succedendo negli ultimi anni è che alcuni di questi compiti non si riesce a risolverli nei tempi canonici. Per esempio, il tema della separazione dalla mamma o dal papà va a volte un po’ troppo per le lunghe. Questo finisce per creare ritardi, sofferenze, contraddizioni e conflitti. Personalmente preferisco pensare che l’adolescenza in sé e per sé esista, che sia una fase intermedia tra l’infanzia e la vita adulta e che su questo non si debba costruire “l’impero dell’adolescenza”, o i consumi dell’adolescenza. Certo l’adolescente è un soggetto che prosegue nello sviluppo quello che è già stato, ma non è il bambino che è già stato né l’adulto che diventerà. L’adolescente è quello che è in quel momento ed è molto influenzato dal contesto in cui vive, non più solo dalla famiglia. Penso al gruppo, alle mode giovanili, alle società, alle influenze positive e negative. Vedremo come finirà questa storia!

©Dialoghi Carmelitani, ANNO 22, NUMERO 4, Settembre 2021

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