Proprio oggi, giorno in cui la Chiesa ricorda S. Giovanni Bosco, offriamo due contributi. 

Il primo contiene le parole che papa Francesco ha rivolto  ai giovani durante la veglia della Gmg  di Panama:

“Don Bosco  che non se ne andò a cercare i giovani in qualche posto lontano o speciale semplicemente imparò a guardare, a vedere tutto quello che accadeva attorno nella città e a guardarlo con gli occhi di Dio e, così, fu colpito da centinaia di bambini e di giovani abbandonati senza scuola, senza lavoro e senza la mano amica di una comunità. Molta gente viveva in quella stessa città, e molti criticavano quei giovani, però non sapevano guardarli con gli occhi di Dio. I giovani bisogna guardarli con gli occhi di Dio. Lui lo fece, Don Bosco, seppe fare il primo passo: abbracciare la vita come si presenta; e, a partire da lì, non ebbe paura di fare il secondo passo: creare con loro una comunità, una famiglia in cui con lavoro e studio si sentissero amati. Dare loro radici a cui aggrapparsi per poter arrivare al cielo. Per poter essere qualcuno nella società. Dare loro radici a cui aggrapparsi per non essere abbattuti dal primo vento che viene. Questo ha fatto Don Bosco, questo hanno fatto i santi, questo fanno le comunità che sanno guardare i giovani con gli occhi di Dio. Ve la sentite, voi grandi, di guardare i giovani con gli occhi di Dio?” .

Il secondo è un estratto di una riflessione sull’educazione che padre Rosario Bologna ha offerto agli insegnanti di Religione di Brescia dal titolo “Educazione cristiana: la consegna di un’eredità”:

Tutti, penso, siamo convinti che non si può ridurre l’educazione all’istruzione. All’educatore vero interessa soprattutto non che l’educando – ragazzo o bambino che sia – apprenda qualcosa, ma diventi qualcuno. In che modo? Dobbiamo dire sin da subito che educare un essere umano significa aiutarlo nel suo cammino verso la felicità; e la felicità è una parola sacra che si può esprimere in tanti modi. S. Teresa d’Avila diceva: “Voglio vedere Dio”. A partire da questo, educatore è chi sa trasmettere l’esperienza di un cammino che è bello, buono, vero, che si va costruendo prima di tutto nell’educatore stesso, pur con tutti i limiti e la pazienza necessari. E’ un educatore chi sa raccontare le ragioni di questo cammino.

Un primo livello da non perdere di vista è la certezza del proprio io unico e irripetibile, la certezza di essere amati e di esistere momento per momento come se Dio continuamente ti estraesse dal suo grembo per amore. E’ la certezza di essere il “tu” prezioso di un Dio Amore che non verrà mai meno. Questa è la radice, la nervatura di una persona.

Io posso essere anche in un buco esistenziale, e l’io è e rimane prezioso. S. Teresina diceva: “L’amore di Dio tende ad abbassarsi; e Dio tratta ciascuno di noi come se fosse unico al mondo, Dio organizza tutta la vita al bene di ciascuno”. Ecco, l’educatore deve trasmettere questa persuasione, fare questo racconto, che deve aver sperimentato prima un po’ lui come liberante e che poi dice a chiunque ne ha bisogno.

E Romano Guardini: “A dispetto di tutte le regole tratte dall’esperienza, e degli scopi e degli ordinamenti, l’educatore deve — con il suo intimo atteggiamento — sempre di nuovo ritornare a quella consapevolezza che non si esprime con affermazioni come: “questo ragazzo qui, in mezzo ad altri cinquanta”, bensì dice: “tu, ragazzo; unico nel tuo essere – di fronte a me” chi non è capace di agire così, è un allevatore di individui utilizzabili dallo Stato; è un addestratore di abili forze economiche – ma non un vero educatore di uomini”. Ed è solo l’amore che fa guardare l’altro come “unico nel suo essere”.

Basta la carezza di uno sguardo per dire che tu sei prezioso, per capire che io sono prezioso. Gli alunni vanno aiutati soprattutto in questo.

Un secondo livello è la certezza che, per il mio io, l’altro non è superfluo: in tutte le forme, anche quelle più difficili, l’altro è essenziale per l’io.

E questa verità sull’essenzialità dell’altro deve protendersi illimitatamente in due direzioni totalizzanti: verso l’Altro – Dio – e verso ogni altro senza escludere pregiudizialmente nessuno.

[…] Altra cosa importante è che l’educatore non è tale se pensa di agire a nome proprio; tanto è vero che deve affidare molto a Lui, spesso anche i risultati e la raccolta dei frutti.  Un educatore sa di dover offrire un incontro reale con la persona di Gesù e con tutto ciò che è suo; prima o poi un educatore deve mettere in contatto la persona che vuole educare con la Parola di Gesù, con i suoi doni e deve far accadere quel contatto unico al mondo che si chiama preghiera, cioè un rapporto personale del cuore con Colui da cui sai di essere amato. E’ lì lo snodo fondamentale, il passaggio dall’azione dell’educatore a colui che è educato. L’educazione accade quando si verifica questo contagio.

Quale contagio? Il contagio di Gesù Cristo: l’inevitabile umano. Cosa voglio dire?

Cristo non dipende dalla nostra accoglienza o dal nostro rifiuto. Nell’eucaristia Gesù è presente sia per chi lo adora devotamente sia per chi si distrae … Una persona può rinnegare tutto, ma ciò che gli ho detto di Cristo rimane tale e quale. Questa verità io la debbo offrire continuamente, sistematicamente, in tutti coloro che mi sono stati affidati. Cristo è “il centro del cosmo e della storia” e, quindi, è il centro di quel cosmo che sei tu, con la tua anima, i tuoi contorcimenti, la tua storia: questo è il fondamento di tutto. Noi dovremmo dire sempre queste cose, come principio di tutti i nostri discorsi: come contenuto e sostanza e scopo di tutto. Non devo far passare soltanto l’idea di quanto sia bello che tu ti abbandoni a Cristo (certo, è importante!), ma che Cristo non ti abbandonerà mai, neanche se tu te ne vai lontano mille miglia. Questa è la verità che deve “radicarsi” per prima; questa è l’annuncio che abbraccia tutti in anticipo, perfino chi se ne va e perfino chi non sembra nemmeno ascoltarti. Se viene meno la fede in Cristo, non viene meno la fede (cioè l’amore) di Cristo in noi.

Se in fondo all’anima dei ragazzi non si suscita questa certezza, in loro non crescerà mai l’energia di sondarla fino alle radici, continueranno a fuggire da loro stessi e diverranno sempre più inquieti e rassegnati.

Il vero dono da trasmettere nella nostra esperienza di educatori è una concezione ed un’esperienza del legame con Cristo come “determinante”. E determinante vuol dire che quel fattore, Cristo, è capace di dare una forma e una strada e una meta e degli orizzonti alla nostra vita, a tutti gli aspetti della nostra vita. 

[…]Deve essere poi un annuncio “di schianto”! Occorre, cioè, la testimonianza fresca e vera della mia vita.

Eccoci allora arrivati al problema della credibilità dell’educatore, la sua testimonianza!

Il Servo di Dio Rosario Livatino, giudice ucciso in Sicilia dalla mafia, diceva: “Nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma quanto siamo stati credibili”.

Bisogna che accada che il “qualcuno” che gli è proposto di diventare, sia incarnato, abbia preso corpo nell’educatore, e in modo affascinante. La modalità propria del rapporto educativo è la testimonianza dell’educatore.

La testimonianza implica l’esempio. Quando l’educatore contraddice con il suo comportamento ciò che propone, normalmente la sua proposta non ha alcuna forza.

Ho avuto la grazia di avere come insegnante di religione per un anno a Palermo p. Pino Puglisi: quello che nella sua vita ci colpiva di lui – una vita piena di sofferenze che teneva nascoste a tutti –  era la gioia fresca propria di chi aveva fatto un incontro capace di cambiare la vita, l’incontro con Cristo.

Permettetemi una provocazione. Mi chiedo e vi chiedo: quale gioia stiamo testimoniando? Perché forse, se il nostro annuncio a scuola, con i ragazzi ma anche tra colleghi, non è così carico di fascino, è proprio perché rischiamo di testimoniare un estraneo, non un vivente!

C’è un test che ci permette di capire ed è questo: nella vita un cristiano non può vivere senza farsi la domanda: “C’è qualcuno che crede per il fatto che io credo?”. A maggior ragione noi dobbiamo farcela. C’è qualcuno che crede per il fatto che io credo? Cioè che trova la fiducia, il movente, lo stimolo, la bellezza, il desiderio di credere perché trova in me, nella mia vita, nelle mie parole, in quello che io sono che vale la pena credere? Vede che in me c’è un pensiero diverso da quello di tutti, che è il pensiero di Cristo? Sciascia diceva: “Come vorrei che ogni tanto i cristiani accarezzassero il mondo in contropelo!”. Lo facciamo?

La vita viene destata e accesa solo dalla vita.

L’augurio allora che vi faccio e che ci facciamo vuole essere profondamente carmelitano: vi auguro di vivere un anno scolastico con la massima profondità per la massima estensione. Quanto più saremo capaci e desiderosi di arrivare personalmente fino in fondo al Cuore di Cristo, tanto più Lui ci farà arrivare ai confini del mondo, ai confini di quel mondo che Dio ci ha affidato e che per noi si chiama scuola, si chiama classe, si chiama gioventù.

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