©Dialoghi Carmelitani, ANNO 17, NUMERO 4, Dicembre 2016

di Marco Dotti*

Nel primo volume del suo fondamentale Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, dedicato a “economia, parentela, società”, Emile Benveniste parla di «quattro cerchi dell’appartenenza sociale». È qui che il linguista, nato ad Aleppo nel 1902, a lungo direttore dell’Ecole Pratique e dal 1937 professore al Collège de France, offre le indicazioni più preziose per comprendere il tema dell’abitare e dell’ospitare, dell’accogliere e del condividere. Ma anche dell’appartenere.

Questioni sull’origine

Partiamo dall’ospite. Chi è l’ospite? Mai come in questo caso, l’etimologia ci aiuta a risolvere un’ambivalenza che nasconde infinite insidie e apre il raggio dei significati a un’imponente rete di suggestioni, rimandi, concetti, simboli. Ospite è tanto la persona che accoglie nella propria casa, quanto la persona che è accolta in casa d’altri. Il latino hospıte (nomin. hospes) è infatti «colui che ospita» e «colui che è ospitato». Hospes ha un’origine indoeuropea che viene fatta risalire a ghos(ti)–potis, «signore dello straniero», cioè il padrone di casa che esercitava il diritto di ospitalità nei confronti del forestiero, composto da ghostis, ossia straniero, e potis, signore e corrispondente all’antico slavo gospodı, padrone, signore, da cui, con lo stesso significato, deriva il russo gospodin. Potere, casa, accoglienza, amicizia, legame. Ma anche guerra, inimicizia, nemico. Approfondendo i termini comuni al vocabolario preistorico delle lingue dell’Europa, infatti, le parole mostrano la complessità delle cose. Ecco perché la riflessione etimologica su “ospite” riveste per noi interesse tutt’altro che ozioso. Ricorda Benveniste che «hostis del latino corrisponde al gasts del gotico e al gostı dell’antico slavo, che presenta inoltre gos-podı “signore”, formato come hospes. Ma il senso del gotico gasts e dell’antico slavo gosti è “ospite”, quello del latino hostis è “nemico”. Per spiegare il rapporto tra “ospite” e “nemico”, si ammette di solito che l’uno e l’altro derivino dal senso di “straniero” che è ancora attestato in latino; da cui “straniero favorevole -> ospite” e “straniero ostile -> nemico”». Alla radice dell’ospitalità c’è dunque il rapporto con lo straniero. Chi ci è nemico, oggi? Chi ci è amico? Questo è un punto.

Il doppio patto tra ospiti

Partiti dall’ospite, siamo arrivati allo straniero. Chi è straniero e, soprattutto, quale straniero e a quali condizioni diventa per noi ostile (hostis)? Benveniste ricorda che il termine hostis ricorre nella Legge delle XII tavole, matrice dell’arcaico diritto romano, come “straniero”. Da straniero a nemico il passo sembra breve, eppure non lo è. Secondo una testimonianza di Festo risalente al II secolo d. C., al termine hostis veniva dato significato di «colui che ha gli stessi diritti del popolo romano». Pompeo Festo ricorda che, in origine, il verbo hostire significava anche aequare. Ospitalità ed equità, ospitalità e reciprocità, giustizia dunque. Non a caso è qui che ritroviamo anche un’antica parola, hostia, di cui ben conosciamo significato e importanza. In origine, dunque, l’ospite, anche nel senso di hostis, non era lo straniero ostile, né il nemico, ma lo straniero al quale si riconoscono diritti pari a quelli dei cittadini. Ed è proprio nel vortice di questa complessa vicenda storico–concettuale che nascono il moderno concetto di ospitalità e quello, più tardo, di ostilità, oltre che la polisemia sconcertante del termine ospite. In questa faglia tra lingua e radici, si apre la grande questione dell’altro che viene. Chi è l’altro che viene (alla casa)? Ospite, nemico?

I quattro cerchi e il nome della casa

Veniamo alla casa e all’abitare. Abbandonate altre questioni storico–concettuali, soffermiamoci, per un istante, su Emile Benveniste. Benveniste ricorda che l’antico iranico ha conservato quattro termini che designano quattro divisioni sociali che, dalla più piccola alla più estesa, si allargano fino a inglobare l’intera comunità, costituendola. Sono: la famiglia, il clan, la tribù e il paese. È proprio qui che si gioca un’altra partita, fondamentale per noi. E si gioca attorno alla radice indoeuropea dem, in iranico antico dam, da cui deriva il latino domus. È sulla “casa”, in sostanza, che si gioca l’intera struttura del sociale, oggi. Sulla casa come entità sociale che designa frontiere, inclusioni, esclusioni e le forme di quell’abitare compartecipe che ci fa tanto discutere. Se a casa fosse unicamente una costruzione materiale, non ci direbbe molto e ancor meno ci sarebbe da dire. Ma la casa è una costruzione sociale. La sua pietra angolare. Ecco allora che l’aggettivo domesticus qualifica ciò che appartiene alla casa e si oppone a ciò che le è estraneo, ma senza alcun rapporto con la forma materiale dell’edificio. Domestico è ciò che ci è famigliare, ciò che possiamo ospitare, ciò che possiamo abitare.

Ospitalità: una virtù interstiziale

«L’uomo esiste in quanto abita», insegnava il filosofo tedesco Martin Heidegger. Ma non basta abitare la casa. Bisogna, spiegava Emmanuel Lévinas, abitare l’irriducibile alterità dell’altro e farsi interrogare. L’altro è ciò che sta sulla soglia, l’ospite inquietante (non a caso nel 1919, Sigmund Freud parlerà di Das Unheimliche, tradotto da Cesare Musatti come “perturbante”, ma dove l’aggettivo tedesco ha un chiaro rimando a «heimelich, heimelig “che appartiene alla casa”, non straniero, familiare, domestico, dato e intimo, che rammenta il focolare»). Il perturbante che mette in discussione il nostro abitare e, se diamo credito a Heidegger («l’uomo esiste in quanto abita»), la struttura portante del nostro essere. Eppure, per evitare di concepire la casa come un rinserramento, quest’altro deve farci giungere la propria voce proprio dalla soglia, là dove la polisemia, l’ambivalenza, ci interrogano aprendo ciò che altrimenti sarebbe reclusione. L’altro è ciò che ci abita, quando abitiamo. Per questo è Das Unheimliche, perturbante.

Abitati dall’altro: il quinto cerchio vs distruzione del legame

Ciò che l’universalismo non sembra capire, né ascoltare è proprio la voce dell’altro, la sua costitutiva ambiguità. Una testimonianza di Matteo Bassoli, ricercatore di sociologia politica e fondatore di Refugees Welcome, un’associazione senza fini di lucro che lavora con le famiglie per dare accoglienza ai migranti, ci racconta una piccola storia che mostra come, senza riflettere a lungo e senza sosta sull’alterità e senza praticarla nella sua costitutiva ambivalenza e nei suoi rischi, ciò che può accadere è di ridurre la casa a una struttura e, di conseguenza, l’abitare e l’accogliere a forme di mera inclusione distruttiva dell’altro. Quella di Bassoli è solo una delle tante storie esemplificative che illustrano come vi sia un insanabile contrasto tra un universalismo che declina socialmente ciò che i venture capitalists della Silicon Valley chiamano “disruption” (innovazione radicale praticata distruggendo radicamento e legame sociale) e una pratica di accoglienza che potremmo chiamare del «quinto cerchio», una inclusione nel cerchio caldo del sociale che lo rafforza, lo rende vivo nelle sue particolarità e ne rinsalda, anziché distruggerlo, l’equilibrio. Si tratta di una reciproca inclusione: inclusione nella casa, nel legame, nel radicamento inclusi in reti di relazioni comunitarie gli uni, inclusi in un mondo — piaccia o meno — globalizzato gli altri. Torniamo a Bassoli: «ho lavorato come “gestore” di un CARA, un Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo, che è una struttura in cui vengono accolti i migranti appena giunti in Italia irregolarmente che intendono chiedere la protezione internazionale. Questa esperienza mi ha convinto del fatto che solo costruendo reti sociali è possibile dare vita ad una politica di accoglienza dei migranti efficace e sostenibile». Appena aperta la sua Associazione, Bassoli viene contattato da una multinazionale della cosiddetta “app economy”, molto nota in Italia perché permette di affittare appartamenti, case e bed and breakfast “semplicemente” con lo smartphone. L’offerta — subito rifiutata — è chiara: ci offriamo per trovare posti dove mettere i migranti. Si tratta di accoglienza? Si tratta di un servizio, di un’opportunità? Torniamo indietro, torniamo a noi e chiediamoci: quale visione dell’abitare, dell’accogliere, dell’ospitare, quale idea della relazione, del legame con i quattro cerchi del sociale e quale idea dell’alterità “abita” questo tipo di approccio? Nessuna, il vuoto. Oggi non è un caso se l’accoglienza riesce, là dove vi sono non solo regole o “contenitori”, ma reti, famiglie, relazioni e dove l’ambivalenza del termine ospite viene tenuta e vissuta a garanzia di tutti. Dell’ospite che arriva non meno di quello che accoglie.

Chi fugge dalla guerra e chi fugge da noi

Da gennaio alla fine di ottobre di questo 2016, sono 4.899 i migranti che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa. A rivelarlo è il 3° Rapporto sulla Protezione Internazionale. Nei primi 10 mesi del 2016, sono stati 159.432 i migranti arrivati in Italia, con un incremento del 13% rispetto allo stesso periodo del 2015. Di questi quasi 160mila migranti, ben 19.429 sono minori non accompagnati (12,1%). Sempre a fine ottobre in Italia sono state accolte 171.938 persone in diverse strutture di accoglienza (Caram, Cdam, Cpsam, Cas e Sprar). Il Rapporto è stato redatto da Anci (l’Associazione nazionale dei comuni), Caritas, Cittalia, Fondazione Migrantes e dal Servizio centrale dello Sprar, in collaborazione con Unhcr. Nel 2015 abbiamo avuto 1 milione e 393.350 domande di protezione internazionale in Europa, valore più che raddoppiato rispetto all’anno precedente. La Germania, con 476.620 domande presentate (pari al 36% nell’Ue) è il primo Paese per richieste di protezione internazionale, seguita da Ungheria, Svezia, Austria e Italia. Questi ultimi 5 Paesi raccolgono nel complesso il 74,8% delle domande presentate nell’Unione europea. Sempre nel 2015 sono stati più di 65 milioni i migranti forzati nel mondo, di cui 21,3 milioni rifugiati, 40,8 sfollati interni e 3,2 milioni di richiedenti asilo. Nel mondo, nello scorso anno, circa 34mila persone al giorno sono state costrette a fuggire dalle loro case per l’acuirsi di conflitti e situazioni di crisi, vale a dire una media di 24 persone al minuto. Fin qui i numeri, inquietanti, di un fenomeno che rischiamo però di valutare solamente in termini quantitativi. È in ben altri termini, termini stavolta qualitativi, che dovremmo ragionare a monte del problema. Rovesciare la prospettiva sull’ospitalità e l’abitare, sullo sradicamento e sulle reti di accoglienza significa forse qualcosa di diverso che ritornare alla radice stessa dell’ospitalità? Più che alle immagini dei “flussi”, delle “ondate migratorie” è a qualcosa di più simbolico e al tempo stesso dialogico che dovremmo rivolgerci. Più che a segni è a simboli dei tempi che dovremmo guardare.

Il sostantivo “simbolo”, dal greco symbolon, identificava d’altronde il segno di riconoscimento formato dall’unione di due parti di un oggetto in precedenza spezzate. Il simbolo (latino symbolum), anche nella sua accezione verbale symballo, “metto insieme”, dal verbo symballein, nel senso di “legame”, “accordo”, “patto”, “paragone”, rimanda fortemente alla questione dell’ospitalità. Scriveva a tal proposito, nel XIX secolo, Friedrich Creuzer: «Una tradizione antichissima, considerata sacra anche in Grecia, consisteva nello spezzare una tavoletta (tessera hospitalis) e nel conservare le due unità separate come pegno e segno di un diritto di ospitalità concluso. Quel frammento della tavola spezzata (tessera) veniva chiamato proprio simbolo (symbolon). La parola non si arrestò a quel tipo di accordo e abbracciò tutte le relazioni che si ratificavano attraverso un segno visibile».

Ecco il cuore della sfida che l’abitare, l’ospitare, l’accogliere e persino il respingere ci pongono.

Sapremo riunire le tessere e riconoscere il giusto ospite?

 

*Marco Dotti è nato a Chiari, in provincia di Brescia. Fa parte del gruppo di direzione del mensile Communitas e della redazione di Vita . È docente di Professioni dell’editoria al corso di laurea in Comunicazione (Cim/Cpm) dell’Università di Pavia. Nel 2013 ha pubblicato: Slot city. Milano-Brianza e ritorno (RoundRobin, 2013), Il calcolo dei dadi. Azzardo e vita quotidiana (ObarraO, 2013) e curato No slot. Anatomia dell’azzardo di massa (Feltrinelli Zoom, 2013). Scrive o ha scritto per il manifesto, Alias, Lettera internazionale, L’Indice.

error: CONTENUTO PROTETTO