In questi giorni difficili si fanno strada molti pensieri e riflessioni e, tra tutti, si è consolidata in modo particolare una consapevolezza che avevo già maturato qualche anno fa, quando ho perso mio padre: la nostra società ha illusoriamente rimosso il dolore e la morte dalla quotidianità della vita. Questo naturalmente è un dono del progresso. La malattia e la sofferenza – rispetto anche soltanto alla generazione dei nostri nonni – nella percezione comune sono un evento più raro e straordinario. Penso alla mia nonna paterna che, durante la guerra, di undici fratelli ne aveva persi più della metà e persino due figli piccoli. Penso alla sconcertante naturalezza con cui aveva affrontato e accolto quel dolore. Per quella generazione la morte e la sofferenza erano pane quotidiano.
Credo che il tempo che stiamo vivendo sia capace di restituirci la vera dimensione della Quaresima e di aiutarci a meditare con maggiore concretezza il mistero della Passione e Morte di Gesù. Mi sembra sia rimasta solo la fede cristiana a portare l’uomo a confrontarsi con il dolore e la sofferenza, a non dimenticare che c’è una grande differenza tra diritti e doni. La fede ci insegna a riscoprire una verità molto più profonda di quella “gratitudine” per le piccole cose che ora sembra fortunatamente risvegliata nelle nostre coscienze, ma che rischia di diventare un pensiero retorico e presto dimenticato quando potremo finalmente ritornare alla desiderata “normalità”.
Certo, in questo momento ringraziare Dio per ogni nuovo giorno ha un valore diverso, ma sento che dobbiamo andare più in profondità di così. Sento che dobbiamo rimettere tutti la nostra vita consapevolmente nelle mani del Padre e imparare la vera fiducia dei “piccoli”, secondo le parole di Gesù nel Vangelo.
Sento che questo è senz’altro un momento in cui riscoprire il valore dei legami che troppo spesso diamo per scontati, ma anche in cui sperimentare e coltivare la solitudine, quella che ci mette a nudo di fronte a Dio. Quella di un papa che in una piazza San Pietro deserta ci accompagna di fronte al Crocifisso, portando tutto il peso del mondo sulle spalle.
Si torna così a riflettere sul valore della persona. Fino a poche settimane fa, quando ancora a molti sfuggiva la gravità della situazione, era facile sentire affermare con sicurezza e arroganza: «Stiamo paralizzando il Paese per una semplice influenza. Muoiono solo i vecchi e gli immunodepressi!». Non siamo forse noi quelli? Non sono i nostri padri, i nostri nonni? Non c’è forse un’intera comunità distrutta in quei luoghi dove improvvisamente una generazione è venuta a mancare? Non sentiremo forse per anni il peso di non aver potuto dire addio ai nostri cari o stringergli la mano mentre li stavamo perdendo? Di non poter celebrare il loro funerale? Di non vederli seppellire? La società del nostro tempo non ha mai vissuto niente di tutto questo prima d’ora.
Tutto questo accade, però, sempre sotto lo sguardo di Cristo che ci accompagna e mai come ora penso che nessun altro sguardo possa restituire verità e dignità a questa esperienza di dolore, sofferenza e smarrimento. In un tempo in cui è possibile abbracciarsi solo in modo virtuale possiamo riscoprire il vero significato dell’abbraccio in Cristo: un luogo di comunione, speranza e consolazione, in cui incontrarsi realmente.
Giorgia Ciampini
Verona