EDITORIALE – GUERRA E CURA
In questi ultimi mesi in cui si sta cercando di ritornare alla normalità, proprio questa prospettiva, il tentativo di ritrovare una routine che il lockdown ha interrotto bruscamente, pare critica e non così semplice e ovvia come si poteva pensare.
Se qualcuno profetizza, con un certo incomprensibile non celato compiacimento, che nulla tornerà più come prima, mentre qualcun altro contemporaneamente conclude che … sì … dopo qualche scossone invece tutto tornerà come prima perché tanto le cose vanno sempre nello stesso modo, emerge tra questi estremi la sensazione che, in realtà, la fase storica che stiamo vivendo possa offrire l’opportunità del ripensamento di alcuni modelli e consuetudini che parevano inossidabili, che erano certo criticabili e criticati, ma che garantivano una certa sicurezza e che era meno complicato conservare che cambiare.
Vi sono state alcune metafore, con le quali sono stati raccontati questi mesi, nel tentativo di trovare una rappresentazione che fosse adeguata e potesse circoscrivere e definire l’impatto di eventi tanto grevi quanto inediti.
E così nei notiziari, divenuti “bollettini”, per giorni è passata l’immagine della guerra, facendo ampio uso di un lessico bellico, assimilando vinti e vincitori alla metafora dell’eroismo; e, certamente, il filmato dei camion militari che uscivano da alcune città con le bare ha fissato in modo indelebile nella nostra mente questa metafora. Ma il virus è stato definito in vario modo, anche come un serial killer, una tempesta, un uragano…
Forse proprio la comunicazione e la narrazione della pandemia sono state un elemento di instabilità, confondendo piani e obiettivi, sovrapponendo il dovere di informare alla volontà di compartecipare emotivamente, il desiderio di suscitare reazioni e comportamenti responsabili al rischio di amplificare la percezione, pur nello sforzo, anche nobile, di cercare di controllare la forza di un avvenimento senza precedenti.
La lotta contro il “nemico silenzioso e invisibile”, visto dalle finestre di casa e dallo schermo del pc o dello smartphone e veicolata dai media, ha occupato e riempito i nostri discorsi e i nostri pensieri, le nostre preoccupazioni ed il nostro tempo con un’onda anomala di informazioni, tanto che si è parlato di infodemia per descrivere la quantità e la rapidità di dati e delle news da cui siamo stati raggiunti. In realtà l’eccesso di notizie, di prese di posizione, di pareri e di consigli non ha aiutato ad avere una visione chiara e una sicurezza sulle indicazioni da seguire. Anche qui la metafora del bombardamento, anche se mediatico, insieme all’invasione di terminologia medica nel nostro linguaggio ci spinge a chiederci ora quali possano essere il modo per ricostruire, la cura da seguire e la terapia da assumere, per poter pensare l’oggi e ripensare il domani.
L’esigenza di ricominciare, di ripartire ci dà l’occasione di riflettere sui tempi che viviamo e verso cui ci muoviamo e ci costringe anche a volgerci indietro su quel che è stato prima.
In questo numero della nostra rivista si è voluto dedicare, anche prendendo spunto da fatti d’attualità, uno spazio di approfondimento al tema della tolleranza, una parola che è alla base dei tempi e dei sistemi civili moderni e contemporanei, che però ha mostrato, proprio in questo 2020, tutti i suoi confini e limiti. Un valore che pareva definitivamente acquisito a fondamento della società civile e politica, liberale e democratica, anche se già a livello teorico appare nei suoi risvolti paradossali: ci si chiede se e quanto una società può e deve essere tollerante con gli intolleranti, se esiste un limite alla tolleranza e se la tolleranza sia realmente una garanzia di rispetto e salvaguardia dell’altro.
Le vicende di questo anno han fatto invece prepotentemente emergere il bisogno profondo che abbiamo non tanto di “tollerare” gli altri, ma di “condividere” con gli altri e hanno messo a nudo la strutturale vocazione della persona all’incontro. C’è un sentire diffuso, lasciato dietro di sé dalla pandemia, anche se in parte inconsapevole e inespresso: sentiamo la necessità di cambiare modalità e priorità, di individuare e operare scelte che superino il rispetto e la tolleranza e aprano a esperienze e sentimenti di maggior condivisione, convivialità, comunità e costruzione di un cammino comune.
Questa necessità di mutare la metafora con cui pensare a sé, agli altri, al tempo e allo spazio delle nostre vite, trova nella categoria dell’incontro un orizzonte che si offre carico di promessa e di speranza come ogni incontro personale può essere e divenire.
L’incontro non delimita, apre alla novità e all’arricchimento reciproco, perché implica la persona nella globalità delle proprie caratteristiche e scelte, non definisce, ma è contaminazione, può ridefinire e, talvolta, cambiare. L’incontro è concreto, capace di obbedire al reale, alle sue necessità, attento ai bisogni, perché sposta lo sguardo da sé all’altro, è accogliente e disponibile, perché accetta e, spesso, ama la diversità e per questo è pronto a maturare, ad assumere e portare su di sé responsabilità e sacrifici. Un vero incontro implica sempre un mutamento dei soggetti coinvolti e l’inizio di un rapporto di cura vicendevole. Ed ecco forse la nuova metafora, di cui abbiamo bisogno, da cui partire e che ci può accompagnare nel tempo a venire: la cura, non nel senso medico, che così tante volte ci ha investito recentemente, ma nel significato dell’aver e del prendersi cura, come quella sapienza dell’essere e del pensare che nelle pieghe della quotidianità intesse la vita di azione e contemplazione del mistero dell’esistenza.
È il tempo della cura in tutte le sue applicazioni e declinazioni che toccano e includono noi stessi, gli altri, il mondo, la natura. Incontro e cura sono categorie profondamente cristiane che possono fornirci spazi di pensiero e di scelta nell’immaginare l’istante presente ed il futuro prossimo, perché, come racconta il Vangelo, noi, incappati lungo la strada nei briganti, abbandonati, feriti e derubati lungo la strada, siamo stati incontrati, raccolti e curati.